Il calendario scolastico e quello lavorativo con le loro festività non sono le uniche variabili che scandiscono i ritmi di vita di noi cittadini metropolitani del ventunesimo secolo. Anche l’alternarsi delle stagioni astronomiche, determinato da ogni passaggio del Sole ai solstizi e agli equinozi, segna un momento di rottura nei precari equilibri delle nostre esistenze. A mutare non sono unicamente i fenomeni meteorologici o l’aspetto del paesaggio che ci circonda: il cambio di stagione coinvolge le nostre vite a tutto tondo, influenzando anche le abitudini alimentari.
In un misto di gioia e di malinconia, ci lasciamo alle spalle la stagione appena trascorsa e con essa i suoi frutti. Addio angurie, cetrioli e pomodori: vi ritroveremo con entusiasmo il prossimo anno. Diamo il benvenuto ai protagonisti dell’autunno: cachi, kiwi e pere, finocchi, radicchi e porri. L’esuberanza dell’estate è già un lontano ricordo, insieme alle pietanze fresche e leggere che ci hanno ristorato nelle giornate più calde e luminose. Con il diminuire delle temperature si torna volentieri a consumare piatti caldi e brodosi, confortanti e più sostanziosi: è di nuovo il tempo dei risotti, delle vellutate e delle zuppe.
Le fronde degli alberi hanno iniziato ad appassire e torna in scena il tanto atteso spettacolo del foliage: non c’è momento più adatto per una passeggiata nei boschi a caccia di corbezzoli, funghi e tartufi. Castagne, melagrane e zucche fanno capolino sui banchi dell’ortofrutta: è l’ennesimo e inconfondibile segnale dell’arrivo dell’autunno, che torna a deliziarci con i suoi sapori caratteristici.
Ogni stagione vanta una propria identità gastronomica basata su consuetudini e ricorrenze talmente note e reiterate da essere divenute, in certi casi, dei veri e propri cliché. Esse affondano le loro radici nel fertile terreno delle nostre origini contadine e, sebbene l’attuale stile di vita sia molto diverso da quello dei nostri avi, impegnati giorno e notte nell’incessante lavoro della terra e nella cura del bestiame, i τὸποι stagionali risvegliano ancora oggi il primordiale istinto animale e rievocano il sodalizio ormai perduto con la natura e i suoi ritmi.
Mangiare cibi freschi e di stagione, ancora meglio se locali o addirittura provenienti dal proprio giardino, costituisce senz’altro un lusso nell’epoca dell’industrializzazione-alimentare-senza-tempo e ravviva quel sentimento di radicamento nella naturalità, sebbene la nostra sopravvivenza non dipenda più dalla caccia né dalla raccolta di erbe e frutti spontanei, pratiche autentiche di vita selvaggia. E nonostante i sempre più frequenti imprevisti atmosferici, i rischi di un’annata troppo arida o piovosa non costituiscono più una minaccia reale al soddisfacimento dei bisogni alimentari della popolazione, che troverebbe un facile rimedio nei sicuri prodotti d’importazione, dalla certa origine geografica ma dall’incerta stagionalità.
Come suggerisce Ryoko Sekiguchi in “Nagori”, l’alternarsi delle stagioni introduce nelle nostre vite l’idea di un ciclo che si ripete. Non è un caso che si parli di stagioni della vita per indicare le diverse fasi che attraversiamo dalla giovinezza alla senescenza e che gli anni vissuti si contino proprio in primavere, la stagione della rinascita per antonomasia. Eppure, il tempo della nostra vita procede secondo una linearità a senso unico, verso una degenerazione irreversibile.
Dal contrasto tra le due modalità temporali, quella ciclica del succedersi delle stagioni e quella lineare dell’inevitabile fluire della vita, scaturisce una riflessione sul ruolo simbolico del cibo come marcatore del tempo che scorre. A esprimere questa dinamica sono soprattutto i così detti cibi di stagione. Essi non solo incarnano in modo univoco l’identità gastronomica della stagione di appartenenza, fino a elevarsi a loro universale iconografia, ma persino il concetto stesso di stagionalità nella sua più intima natura precaria. I cibi stagionali, per definizione essenzialmente periodici, si offrono a noi per un periodo a volte talmente breve da rendere limitate le nostre possibilità di coglierli e gustarli. Per tale ragione le ciliegie in primavera e i fichi in estate appaiono più preziosi dell’esotica banana che ogni giorno si offre al palato del consumatore.
Esiste dunque un momento ideale per godere di questi cibi, non solo per una questione di effettiva disponibilità sul mercato ma anche in termini di apprezzabilità. Alla fugacità della loro permanenza si accompagna tuttavia la certezza del loro ritorno, a patto di saper sopportare l’attesa di un intero ciclo stagionale.
Accanto agli alimenti ciclici, quelli cioè che incarnano l’essenza della propria stagionalità, ve ne sono altri che, per una naturale resistenza allo scorrere del tempo, sopravvivono al rinnovarsi delle stagioni. Un facile esempio di alimento lineare è l’aglio, seguito da carote, cipolle e sedano che insieme formano la celebre triade degli ortaggi da soffritto, acquistabili anche già tritati, congelati e pronti all’uso in pratiche e anonime confezioni da supermercato.
E che dire delle patate? Tralasciando le novelle, che spiccano proprio per eccezionalità, questi tuberi sono talmente longevi che non c’è ricetta stagionale alle quale non si adattino. Sempre disponibili alla vendita, questi cibi passe-partout ci accompagnano con silenziosa modestia da inizio a fine anno, costituendo la solida base di qualunque dispensa ben organizzata. Imprescindibili come sale, zucchero e spezie, la loro presenza è una tale garanzia che a stupirci sarebbe proprio la loro assenza.
A differenza dei cibi stagionali, la cui transitorietà è veicolo di incertezze, questi alimenti duraturi promuovono sentimenti di sicurezza e affidabilità. Ma chi saprebbe dire oggigiorno qual sia la loro stagionalità? Forse chi ancora coltiva la terra ed è costretto a soggiacere alle sue regole e ai suoi tempi scanditi da semine e raccolte.
Complici il mercato globale, l’agricoltura intensiva e il cambiamento climatico, sempre più alimenti manifestano la tendenza a smarcarsi dalla circolarità del moto stagionale per scivolare verso una linearità senza tempo. Chi si ricorda che il pomodoro è un frutto (e non un ortaggio) estivo? In vendita tutto l’anno, l’ultima traccia delle sue origini stagionali resiste forse nell’impercettibile cambiamento dell’offerta, che tra giugno e settembre si arricchisce in quantità e varietà. Ma delle conserve di salsa e pelati — cibo industriale sempre uguale a sé stesso — chi sa dire quale sia la stagione d’appartenenza? Non quella in cui sono stati prodotti e neppure quella in cui si consumano, ma forse la stagione che rievocano insieme alle emozioni di cui si fanno portavoce.
Temporalità circolare e lineare si intrecciano e si sovrappongono fino a confondersi e contaminarsi. Tanto il fluire della nostra vita viene scandito dal ciclico susseguirsi delle stagioni, quanto ognuna di esse si appropria dello scorrere lineare della nostra vita e come questa nasce, matura e sfiorisce, al punto che si può parlare di stagionalità nella stagione o vita delle stagioni. Ogni nuovo inizio si manifesta nell’energica vitalità delle sue primizie: è il trionfo della giovinezza, che si offre a noi con ingredienti ancora un po’ acerbi e aciduli ma piacevolmente freschi e croccanti, come le fave e i piselli agli esordi primaverili o le prime mele colte in autunno. Il piacere di gustare un frutto pienamente maturo richiede invece un’attesa paziente e la saggezza d’intuire il momento ideale per la sua raccolta. Solo quando la polpa di fragole e ciliegie sarà più dolce e succosa e gli asparagi più teneri e carnosi sapremo di essere giunti nel vivo della stagione. Ma la maturità è una conquista che si rivela spesso fragile e preziosa, come quella della pera che una volta recisa marcisce in fretta. Sul finire della stagione, quando già si preannuncia la successiva e le nuove primizie deliziano i nostri palati bramosi, non ci resta che accontentarci dei frutti tardivi: ultimo baluardo di una temporalità dalla quale dobbiamo prendere congedo. Essi incarnano la nostalgia della stagione che ci ha appena lasciato: un concetto affascinante che i giapponesi chiamano nagori. Siamo così giunti alla fine di questo viaggio, nel retrogusto dolcemente amaro di una senescenza che già contiene la promessa di una nuova rinascita.
Mentre le nostre vite procedono senza sosta verso i loro ineluttabili destini, la nostalgia delle stagioni e delle loro prelibatezze si accompagna all’attesa del loro ritorno, in un continuo avvicendarsi di assenze e ricordi, aspettative e piaceri goduti. Un’altra primavera è trascorsa e già stiamo vivendo un nuovo autunno, con maggiore consapevolezza del tempo che scorre anche attraverso i cibi di stagione.
Buon lavoro!
Antonella Balducci